È passato un po’ di tempo e adesso ci vuole un po’ più tempo per decidere da che parte cominciare. Dopo una gravidanza abbastanza tranquilla, segnata dalle tipiche nausee e bruciori di stomaco del primo trimestre, un sacco di viaggi e viaggetti, da un idilliaco secondo trimestre e da un gonfissimo e caldissimo terzo trimestre, si avvicina il momento della nascita di Sara. Conoscevamo il sesso da metà del secondo trimestre, ma il mio cuore sapeva da sempre che era lei. I giorni scorrono placidi, con tante passeggiate e tranquillità, tanto che quasi mi sembrava incredibile anche solo l’idea che effettivamente nella pancia ci fosse qualcuno che doveva uscire di lì a poco!! Allo scoccare della 40esima settimana passo in ospedale a fare un monitoraggio e un controllo, che avrei dovuto fare anche il giovedì successivo, a 41 settimane, se non fosse cambiato nulla.
A 40+4, un martedì mattina, noto del muco con qualche striatura di sangue nella carta igienica. Wow, forse si sta avviando qualcosa! Quel giorno avevo in programma di preparare scorte di ragù da congelare in vista del periodo impegnativo che avevamo davanti, quindi vado a fare la mia consueta passeggiata in centro a prendere gli ingredienti che mancavano. Passo anche dal bar dove l’anno prima avevo lavorato per una stagione e la mia ex-titolare si stupisce di vedermi ancora in giro con una panza gigante. Mentre sono lì inizio ad avvertire qualche strano movimento, sentivo pancia e schiena indurirsi, ma senza dolore. Incurante di tutto torno a casa e inizio a cucinare. Come probabilmente saprete, per il ragù, il vero ragù emiliano, la cottura è un processo mooooooolto lungo, che va dalle 4 alle 5 ore. Nel mentre che il ragù cuoce si fa ora di cena e queste contrazioni si fanno pian pianino accompagnare da qualche doloretto, e pian piano si fanno più intense. A cena mi mangio una quantità esagerata di puntine in umido (cotte nel ragù), e avrò modo di pentirmene amaramente per un bel po’… dopo cena le contrazioni si intensificano ancora un po’, sono ritmiche ogni 2 minuti, anche se ancora poco dolorose. Passa a trovarci un amico, e chiamiamo la suocera che temiamo di dover andare via senza poter concludere la cottura del mio amato ragù.
Verso le 23.30, spegniamo il pentolone e incarichiamo la suocera di riempire i vasetti, poi, finalmente, ci dirigiamo in ospedale per capire un po’ che stava succedendo. In ospedale resto attaccata al monitoraggio due ore, e le contrazioni, per quanto ritmiche, iniziano solo adesso a richiedere una pausa quando parlo. La piccola è molto agitata in pancia, come sempre, e mi tengono attaccata così tanto tempo proprio perché non riescono a rilevare bene il suo battito visto che sguscia sempre via. Verso l’1 e 15 di notte mi visitano e decretano che il collo dell’utero è chiuso ma che si sta ammorbidendo. Mi consigliano una doccia, di rilassarmi e affermano che molto probabilmente mi avrebbero rivisto al monitoraggio della 41esima due giorni dopo. Poiché è notte si arriva rapidamente a casa, e nel momento in cui mi appoggio a letto inizio ad avere contrazioni ritmiche ogni minuto. Cerco di rilassarmi ascoltando sul computer la registrazione di mio padre di un’induzione, per cercare di andare in alpha. Penso di averla ascoltata una decina di volte senza grande successo, perché le contrazioni erano talmente ravvicinante che non riuscivo mai ad andare giù completamente e dovevo ogni volta ripartire da capo. Mio marito, verso le 5 e un quarto mi propone di tornare in ospedale, adesso erano frequentissime, regolarissime e piuttosto dolorose, ma io rifiuto per timore di venire respinta e dileggiata dai medici che mi avevano visitata qualche ora prima. Dopo poco mi convinco, al massimo è un giro a vuoto, e alle 5 e mezzo arriviamo in ospedale.
Nel tragitto parcheggio – pronto soccorso ostetrico (attraversare la strada, prendere l’ascensore, corridoio e un altro ascensore, tempo di suonare il campanello del PS) ho quattro contrazioni che non mi permettono nemmeno di spiegare all’ostetrica che mi vede (mi ri-vede) la situazione. Lascio la parola al marito e intanto vengo riattaccata al monitoraggio. L’ora che passo attaccata al monitoraggio è delirante: sono sdraiata su questa poltrona e piegata sul fianco, inizio a gridare ad ogni contrazione, presa dal panico mi dimentico di respirare, il marito mi guarda spaventato e non ho idea di che fare. Ricordo che ad un certo punto passa un’ostetrica a cercare di farmi calmare e da lì dopo ogni contrazione forse mi addormento anche. Alle 6 e mezzo, finalmente, decidono di aver tempo di visitarmi e scopro di essere a dilatazione completa. Mi accompagnano in sala parto, mi mettono sul lettino, mi riattaccano il monitoraggio, e mi dicono di spingere quando arrivano le contrazioni. Non ricordo di aver mai sentito un vero stimolo a spingere, ma sono talmente sopraffatta che ubbidisco. Ad un certo punto mi propongono di girarmi a quattro zampe, ma inizio a gridare subito per il dolore e torno nella posizione di partenza. Ricordo ad un certo punto che qualcosa cambia in me e mi trovo a spingere anche tre volte ad ogni contrazione con una determinazione spaventosa. Dopo un paio d’ore di spinte decidono di rompermi il sacco e dopo un altro po’ di tempo di accelerare il travaglio con l’ossitocina in vena. A quel punto le contrazioni, che già sono sempre state molto ravvicinate diventano costanti e io spingo, spingo, spingo come un’ossessa. Ad un certo punto la stanza si svuota e restiamo soli, io e mio marito, per una decina di minuti o qualcosa di più. Era il cambio turno e tutti erano usciti per fare il cambio di consegne con il team successivo.
Era la seconda volta che venivo abbandonata a me stessa senza alcuna spiegazione, stavolta mentre spingevo. Ad ogni contrazione la cena minacciava di uscire dallo stomaco e speravo non lo facesse, e ad ogni spinta avevo un crampo al polpaccio. Al loro ritorno e dopo non so quante spinte ancora, sento un bruciore assurdo ed ecco spuntare la testa. Ricordo distintamente il dolore che ho provato e il bruciore, e in quel momento ho pensato “ecco, adesso impazzisco per sempre”. Dopo una pausa, un’altra contrazione e anche il corpicino della mia cucciola sguscia via, con un altro grido di dolore, tanto tanto bruciore e lo stesso pensiero inchiodato nella testa. Sono le 9 e 21 del 21 settembre 2011. Chiamo il nome di mia figlia e finalmente, appoggiata alla mia pancia, posso conoscerla. I suoi occhi mi travolgono, e il suo pianto mi apre il cuore. Cerco di avvicinarla al seno, e sembra troppo stravolta per voler ciucciare, cosa che farà dopo qualche ora. Scopro quindi che la mia principessa è nata con il cordone che faceva un giro intorno al collo e lei che lo teneva con la mano e il gomito puntato verso l’esterno. Il passaggio di testa e gomito insieme mi ha lacerata e il ricamo del personale ospedaliero è durato un bel po’. La piccola per lo stress dovuto alle 3 ore di spinte, all’ossitocina e al travaglio ha meconiato sulla mia pancia immediatamente, ma ormai è passato tutto ed esiste solo lei. La piccola si allontana da me, dopo un po’ di tempo per bagnetto e misurazioni varie, insieme al suo papà, e poi, finalmente, stiamo insieme, soli, a conoscerci. Nei giorni successivi in ospedale do il tormento alle ostetriche per farmi aiutare ad attaccare bene la cucciola, ho qualche piccolissima ragade e molto male, ma alla fine prendo confidenza con l’allattamento e quest’altra storia d’amore può iniziare.
Ci ho messo molto tempo per elaborare questo parto. Appena accaduto il pensiero di quello che era successo mi faceva tremare come una foglia per lo shock (la lacerazione è stato davvero il momento in cui ho creduto di impazzire per sempre), dopo qualche settimana invece ho iniziato a pensare di non veder l’ora di ripetere l’esperienza, per rivivere tutte quelle sensazioni estreme, la loro potenza e il fatto di esser sopravvissuta e di essermi trasformata e rinata con esse, esattamente come uno sportivo che fa sport estremi, che desidera ripetere la fortissima esperienza adrenalinica per le sensazioni travolgenti che gli ha dato. Il dolore della lacerazione è ormai dimenticato e affrontando questo momento col senno di poi sono riuscita a cogliere tutto quello che sarebbe dovuto andare diversamente, dall’assistenza, all’uso dell’ossitocina, al fatto che abbiano tagliato praticamente immediatamente il cordone. Ne ho fatto e ne sto facendo tesoro, e per la prossima nascita, due anni dopo la prima di Sara, spero che le cose andranno molto diversamente da come sono andate questa volta. Il fatto di avere una grande consapevolezza di quello che è che significa partorire mi da una sicurezza incredibile e sapere di avere la forza e le energie che ho messo in campo mi aiuteranno senz’altro ad affrontare meglio il travaglio, senza andare nel panico come questa volta. Il sogno di una nascita dolce mi accompagna e mi faccio forza con questo.
Valentina, mamma di Sara e in attesa di Nicola
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